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- W4249884025 abstract "'Publice utilitati fructificare desidero':Brevi riflessioni sul costituzionalismo dantesco nel primo libro della Monarchia Cecilia Natalini Premessa Il problema dantesco del costituzionalismo, entro il cui recinto si delinea il potere, appare caratterizzato da un moto di originalità capace di sospingere il Medioevo oltre se stesso e di imprimere un segno indelebile nella pubblicistica tra i secoli XIII e XIV. A fare da sfondo alle riflessioni che seguono non sarà dunque l'apprezzamento generico della cultura giuridica di Dante, ma l'apporto concettuale foriero di accenti per così dire 'diversi sed non adversi' rispetto al pensiero medioevale lentamente e faticosamente sviluppato dalla dottrina di ius commune, da Accursio a Baldo.1 Dante stesso suggerisce la chiave di lettura giuridico-pubblicistica della Monarchia laddove afferma:2 [End Page 291] Stia pur certo infatti di essere ben lontano dal proprio dovere chi, imbevuto di pubbliche dottrine, non si cura di apportare alcunché alla cosa pubblica … Ripensando dunque spesso fra me e me queste cose, perché un giorno non mi si venga a rinfacciare la colpa di aver tenuto nascosto il mio talento, desidero non solo accrescerlo, ma farlo fruttare per la pubblica utilità, additando verità che altri non hanno ricercato. Questo passo, tratto dal I libro della Monarchia, introduce il tema su cui si incentra tutta l''inquisitio' sviluppata nell'opera, cioè a dire il fondamento giuridico del potere temporale che, per il Poeta, è da ricercare nel diritto umano.3 Nella elaborazione teorica della 'causa imperii' Dante non può che passare attraverso la questione cruciale dell'origine e dei limiti del potere del 'princeps'. Proprio a tal riguardo egli si inserisce, innovandolo, in quel dibattito della scienza giuridica medioevale che egli invero affronta con spirito già umanistico, alla maniera cioè del giurista 'activus'. Il problema medioevale del fondamento del potere Da Accursio a Baldo la trattazione del problema dei limiti al potere scaturisce dalla complessa relazione tra il 'princeps' e le 'leges', per come essa è tramandata nel Corpus iuris civilis: la massima ulpianea tradita in Dig. 1.3.314 asserisce la 'solutio a legibus' del 'princeps', ma Digna vox (Cod. 1.14.4)5 dà credito piuttosto alla sottomissione del 'princeps' alle 'leges'.6 La dottrina medioevale [End Page 292] tenta una soluzione alla disarmonia delle fonti giustinianee mediante il ricorso a considerazioni di natura prevalentemente morale, secondo le linee ripercorse da Diego Quaglioni che, di Accursio, scrive:7 Il Glossatore, pur dichiarando che la sottomissione alle leggi doveva essere interpretata come volontaria (digna est si dicat se velle), aveva però mostrato un evidente imbarazzo intorno ad una proposizione che appariva affatto falsa in quanto contraddetta dall'opposto principio scolpito in D. 1, 3, 31 (sed quomodo est digna vox, cum sit falsum?), affacciando l'opinione, subito però proclamata erronea, secondo la quale il testo giustinianeo avrebbe permesso al principe di mentire (alii dicunt quod hic permittitur mentiri […] quod non placet) e andando perfino a suggerire che la sottomissione dell'imperium alle leggi, e non il contrario, si dovesse intendere come dovuta a ragioni d'onore e di convenienza (quasi dicat: maior est honor, et maior est convenientia, cum imperium sit de fortuna). La Magna Glossa, dunque, interpreta Digna vox (Cod. 1.14.4) tenendo a riferimento principalmente la 'maiestas' imperiale (maior est honor). Quest'ultima diviene concetto assorbente l''auctoritas' del testo teodosiano.8 La dignità della carica è connaturata alla grandezza imperiale e condiziona la 'voluntas principis' al rispetto delle leggi tutt'al più sul piano personale, allorché il 'princeps' voglia riconoscersi obbligato: digna est si dicat se velle. Ma la Scuola del Commento incrina la tesi accursiana e distingue ulteriormente. Scrive, al riguardo, ancora Diego Quaglioni:9 Cino da Pistoia, agli inizi del XIV secolo, prendeva le distanze dalla Glossa, smentendone l'interpretazione e sostenendo il principio della sottomissione del principe alla legge 'de honestate', perché l''honestas' (cioè l'onore) non è altro che il vincolo sacrale del diritto o il 'sacramento del potere': Verum est quod princeps est solutus legibus … quia leges ab eo sunt a quo ipsarum pendet auctoritas … et ideo non possunt eum ligare, quatenus non possit contrafacere … tamen ipse dicit se ligatum, non tamen est verum: ita dicit glossa hic. Sed non bene intelligit, salva reverentia..." @default.
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